Gli Stati Uniti sono il nuovo paradiso dei bitcoin? di Marco Dell'Aguzzo

Dopo la stretta della Cina, gli Stati Uniti sono diventati la nazione in cui si “estraggono” più bitcoin. Ecco perché Tra l’aprile e l’agosto scorsi, la quota di potenza di calcolo destinata all'”estrazione” di bitcoin negli Stati Uniti è raddoppiata, passando dal 17 al 35 per cento del totale globale.

LA STRETTA DELLA CINA

Il motivo – spiega Quartz – risiede nella stretta della Cina, il paese dove si concentrava la produzione di questa criptovaluta, sul mining e sugli scambi di bitcoin. Le autorità cinesi vogliono sia ridurre i livelli di consumo energetico e di emissioni di gas serra legati all’estrazione (i centri di calcolo devono essere alimentati con tantissima elettricità), sia controllare gli scambi in criptovalute per evitare perturbazioni al sistema finanziario.

DOVE SI MINANO I BITCOIN

Nell’impossibilità di operare liberamente in Cina, i miner sono in cerca di nuove destinazioni. Non a caso – stando ai dati del Centro di Cambridge sulla finanza alternativa – da aprile ad agosto 2021 la quota della Cina nell’estrazione di bitcoin è passata dal 46 per cento a quasi lo zero. Dunque, il paese in cui si estraggono più bitcoin sono diventati (almeno da aprile ad agosto) gli Stati Uniti, seguiti dal Kazakistan e dalla Russia.

PERCHÉ I MINER VANNO IN AMERICA

Negli Stati Uniti i miner di bitcoin trovano un ambiente normativo trasparente e stati – come il Wyoming e il Texas, ad esempio – desiderosi di accogliere l’industria delle criptovalute. I prezzi dell’energia elettrica non sono bassi come in Kazakistan, ma il momento di alti prezzi dei bitcoin rende più facile per i “minatori” pagare la bolletta della corrente a fine mese.

IL CONSUMO DI ENERGIA

Parallelamente al raddoppio della quota degli Stati Uniti nel mercato globale del mining, anche il consumo di elettricità da parte degli estrattori presenti sul suo territorio è all’incirca cresciuta di due volte tanto. Il Centro di Cambridge sulla finanza alternativa stima che, a livello mondiale, la rete dei bitcoin ha utilizzato quasi 8 terawattora di energia elettrica nel mese di settembre. Significa che, negli Stati Uniti, i miner hanno consumato circa 35 TWh all’anno: vale a dire tre volte tanto il consumo elettrico annuale dello Sri Lanka.

LE EMISSIONI DEI BITCOIN

Stando alle stime riportate da Quartz, nel 2021 l’estrazione dei bitcoin causerà emissioni di anidride carbonica per 50 milioni di tonnellate. I miner negli Stati Uniti rilasceranno nell’atmosfera quasi 18 milioni di tonnellate di CO2: l’equivalente di aggiungere 3,7 milioni di automobili per strada. È un problema per l’agenda climatica del presidente Joe Biden, che a breve parteciperà alla COP26 di Glasgow e che ha preso l’impegno ad azzerare le emissioni nette degli Stati Uniti entro il 2060. Alcuni stati americani stanno mettendo a punto delle leggi ad hoc: quello di New York, ad esempio, sta lavorando a una legge per impedire alle centrali alimentate a combustibili fossili di fornire elettricità ai centri di estrazione di criptovalute.

COSA FANNO I MINER

Ma l’aumento del valore dei bitcoin incentiverà i “minatori” ad espandersi: potrebbero per esempio dotarsi di centrali elettriche proprie, per essere autosufficienti (un’azienda, Greenidge, lo sta facendo); oppure collaborare con le società di fracking per attingere ai gas di scarto dei giacimenti; oppure, ancora, a utilizzare l’energia nucleare, che non rilascia emissioni.

LE PREVISIONI

Si prevede che, nel prossimo futuro, il consumo annuale di elettricità della rete bitcoin possa arrivare a 200 TWh ed emettere più emissioni di CO2 di Londra.

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