Se il conflitto e le sanzioni dovessero quindi continuare, quanto a lungo potrebbe la Fed mantenere questa linea di lotta all’inflazione come priorità, costi quel che costi? L’analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos Quando finiscono le guerre? Di solito quando uno dei contendenti prevale nettamente sull’altro ed è quindi in grado di dettare le condizioni per la pace. Se nessun contendente riesce a prevalere sull’altro, la guerra finisce per esaurimento della capacità di combattere da entrambe le parti, ovvero quando non ci sono più soldati, armi e munizioni perché il conflitto ha fatto collassare la demografia e l’economia dei contendenti e indotto l’opinione pubblica a chiedere pace invece di vittoria. In Ucraina non si vede ancora una prevalenza chiara di una parte sull’altra e questo, come spesso avviene in questi casi, induce i contendenti ad alzare il livello dello scontro piuttosto che ad abbassarlo. Finora la regia politica della guerra ha resistito alla tentazione di ricorrere alla mobilitazione generale, usare armi più letali e allargare il conflitto includendovi direttamente gli alleati, ma l’escalation rimane la linea di minore resistenza. D’altro canto, le parti in conflitto non sembrano ancora essersi indebolite abbastanza da aprire la strada al compromesso diplomatico. Lasciati agli esperti gli aspetti militari della questione, vediamo infatti che sul piano economico il danno inferto finora agli avversari è più contenuto di quello che i contendenti immaginavano inizialmente. La Russia ha evitato il tracollo del rublo e mantiene un forte surplus delle partite correnti. Carichi di carbone e di petrolio, con percorsi più tortuosi e costosi, riescono comunque a essere esportati. Il gas continua a muoversi dalla Siberia all’Europa. L’inflazione sta salendo, ovviamente, ma non molto di più che nel resto del mondo. Quanto all’Occidente, se la Russia contava sul panico nei mercati occidentali e su un brusco arresto del ciclo globale di crescita, il bilancio è per lei deludente. Le borse, dopo la paura iniziale, hanno ripreso una certa compostezza, mentre le stime sul Pil del 2022, per quanto corrette al ribasso, hanno ancora segno ampiamente positivo in America. L’Europa, dal canto suo, si prepara a una fase di grande incertezza, ma l’effetto positivo ritardato delle politiche fiscali e monetarie del biennio pandemico fa sì che lo scenario di base sia ancora di crescita. Le materie prime, dal canto loro, sono anch’esse meno turbolente di quanto si sarebbe potuto pensare. Dopo una fase di alta volatilità si sono infatti stabilizzate. Il mercato ne bilancia la potenziale scarsità con il rallentamento della domanda che seguirà al rallentamento della crescita. L’effetto è un calo della volatilità. Il fatto che nessuno dei contendenti sia andato a terra e se la sia cavata finora con escoriazioni e lividi significa però che la disponibilità allo scontro non è venuta meno e che continuerà a prevalere l’idea che con uno sforzo in più si possa vincere. La linea di minore resistenza rimane quella di più sanzioni, più armi, più coordinamento militare, non quella di più trattative. Siamo ancora nella fase montante, quella dell’escalation. Che per il momento si combatta con una mano sola lo dimostra anche la divergenza che si profila netta tra politiche fiscali e politiche monetarie. Normalmente, in tempo di guerra, le due politiche si orientano nella stessa direzione. Lo stato finanzia il conflitto in disavanzo e la banca centrale lo monetizza, creando la tassa dell’inflazione che va a colpire patrimoni e redditi. Questo abbiamo del resto fatto con il Covid, che abbiamo trattato come una guerra e che, come ogni conflitto, ci lascia in eredità l’inflazione. Questa scelta è stata poco prudente perché una pandemia lascia intatto l’apparato produttivo e produce solo lockdown temporanei, mentre una guerra fa danni strutturali irreversibili. Il risultato è che ora, mentre la politica fiscale inizia ad occuparsi della guerra rimanendo in prospettiva espansiva, la politica monetaria, dove può, si dedica al contenimento dell’inflazione. I governi vanno da una parte e le banche centrali vanno dall’altra, come è corretto fare in tempo di pace. (E non è nemmeno sempre corretto, come dimostra l’inutile e dannoso tentativo della Fed, nel 2018, di bilanciare con tassi più alti i tagli di imposte decisi dal Congresso). Se il conflitto e le sanzioni dovessero quindi continuare, quanto a lungo potrebbe la Fed mantenere questa linea di lotta all’inflazione come priorità, costi quel che costi? Si è mai vista, in tempo di guerra, una banca centrale provocare una recessione per tenere bassa l’inflazione? Non dimentichiamo che l’appetito per la spesa da parte dei governi continuerà a crescere. Ai costi pesanti della transizione energetica si andranno ora ad aggiungere quelli per il riarmo e per i sussidi ai consumatori di energia e materie prime. E qui parliamo di costi molto più strutturali e permanenti di quelli di un lockdown di poche settimane. La Fed alzerà quindi i tassi solo finché l’economia e il mercato del lavoro americani rimarranno surriscaldati e finché le borse resteranno su livelli particolarmente elevati. È però difficile credere che arriverà al punto da provocare una recessione, anche se questo è quello che pensa il mercato con la curva dei tassi che tende all’inversione. Paradossalmente, l’annuncio con grande clamore del Quantitative tightening, che apparentemente segnala un grado aggiuntivo di severità, va nella direzione opposta. Più Qt si fa, meno si devono alzare i tassi. Se poi il Qt calmerà l’esuberanza delle borse, tanto meglio. Fa meno danno raffreddare l’economia calmando la borsa piuttosto che con rialzi aggressivi dei tassi che la indebolirebbero seriamente. Con il Qt la Fed drena una liquidità in eccesso che non ha in questo momento nessuna funzione se non quella di sostenere i mercati finanziari. Inoltre, per drenare questa liquidità la Fed si libererà soprattutto di titoli lunghi, in modo da mantenere la curva dei rendimenti regolare e non invertita. Se questo è corretto, la Fed cercherà di arrestare la crescita dell’inflazione e di farla scendere su livelli meno preoccupanti, ma si fermerà prima (come succede quasi sempre) del completamento del suo programma di rialzo dei tassi. L’inflazione dunque rimarrà, almeno endemica. È possibile, come molti dicono, che le materie prime abbiano raggiunto il loro livello massimo. Questo non significa però che abbiano molto spazio per indebolirsi, almeno finché il mondo cresce e le sanzioni restano in vigore. Inserirle nei portafogli accanto all’azionario rimarrà ancora per qualche tempo un fattore stabilizzante.
COMMENTO: in questo articolo parlano di investire in materie prime e non in criptovalute. Ma altri sostengono che le criptovalute suno un bene rifugio. In realtà gli Stati Nazionali e le Banche centrali devono affrettarsi a lanciare le proprie CBDC. Prima che tutto il mondo adotti lo YUAN DIGITALE bisogna che gli Stati Occidentali trovino una valida alternativa. SUBITO. Il nostro sistema di CBDC che abbiamo chismato Real Digita Currency è pronto, brevettato e testato. Non ha bisogno di block-chain per la verifica e ha COSTI ENERGETICI ZERO. In 3 mesi riusciamo a fare i corsi di formazione e preparare tutto perchè venga emesso il Dollaro Digitale sul mercato. Senza sovrapporsi a Euro Digitale e altre nostre CBDC che possono tecnicamente coesistere.
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