Le proteste che sono divampate in Kazakistan, scatenate dalla crisi dell’elettricità e del gas, sembra abbiano a che fare anche con un’attività finanziaria in cui il Paese è campione: l’estrazione di cripto valute, come Bitcoin e Ethereum. Queste attività, l’insieme delle complesse procedure tecnologiche per creare le monete digitali, richiedono un massiccio dispendio di energia, e il Paese, ricco di idrocarburi, è stata, soprattutto nell’ultimo anno, la meta preferita di molte società di criptomining, legali e non - queste ultime che operano senza autorizzazione, secondo alcune stime nazionali, ammonterebbero fino al 50% del totale - attirate dal prezzo basso dell’energia. Secondo una stima del Financial Times, negli ultimi 12 mesi, sono circa 88.000 le società di questo tipo che si sono spostate dalle provincie cinesi al Kazakistan, cercando indipendenza da Pechino e sfruttando i vantaggi dell’ex repubblica sovietica, dato che tra i fattori principali che consentono la profittabilità delle attività estrattive di criptovalute c’è proprio il prezzo dell’energia. Ma il dato, a causa delle operazioni illegali, potrebbe essere sottostimato. Il Paese così è presto diventato il secondo al mondo per l’estrazione di Bitcoin.
Secondo i dati dell’Università di Cambridge, la quota del Kazakistan nell’hash rate della rete Bitcoin (cioè quante volte al secondo questa rete tenta di completare quei calcoli complessi) ammonta al 18,10%, posizionando solo dietro agli Stati Uniti (35,40%) e davanti alla Russia (11,23%). Queste attività hanno contribuito al rialzo del consumo interno di energia, che è cresciuto dell’8% dall’inizio del 2021, contro aumenti medi annui che di solito si aggiravano intorno al 2%. Il ministero dell’Energia kazako, accompagnato dagli attivisti dell’ambiente, aveva già lanciato l’allarme lo scorso novembre, quando si era accorto di questo aumento inedito della domanda dell’energia elettrica. Lo stesso governo non nutriva troppi dubbi sulla causa principale da identificare nel criptomining. E Kassym-Jomart Tokayev, presidente del Kazakistan, commentava nel frattempo lo stato dell’industria delle criptovalute nel paese dicendo che era “necessario valutarne chiaramente il potenziale” e che lo Stato si sarebbe impegnato al massimo per promuovere lo sviluppo del fintech. Il governo ha quindi già dichiarato che inasprirà le misure contro le attività di criptomining che risulteranno non autorizzate e che imporrà una tassa a tutte quelle che hanno sede legale in Kazakistan. Il viceministro dell’Energia ha promesso di “fermare il prima possibile” queste attività illegali, considerate le uniche colpevoli della crisi energetica in atto. Il viceministro le ha definite “operazioni di piccoli gruppi che estraggono i Bitcoin senza pagare le tasse”. Da gennaio il governo kazako aveva deciso di aumentare il prezzo dell’energia alle società registrate in modo regolare: pagheranno un tenge (la moneta kazaka, pari a 0,00200 euro) in più per ogni kilowattora consumato. E un’altra misura prevedrebbe, per ridurre la pressione sulla rete elettrica della capitale Nur-Sultan, il razionamento dell’energia per queste società. Solo ieri, quando la rivolta popolare era appena iniziata, Caanan, la quinta società di criptomining al mondo, ha annunciato l’espansione delle attività nella città di Taraz, a 400 chilometri dal centro della rivolta Almaty, raggiungendo le 10.300 Avalon Miner (le macchine che estraggono criptovalute). Nel Paese intanto lo stato d’emergenza è stato esteso a tutto il territorio e il governo si è dimesso.
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